Quella particolare sottigliezza espressiva e, al tempo
stesso, sobrietà e riservatezza che sono tra le
caratteristiche del temperamento toscano non potevano far
difetto nell'opera di Antonio Papasso.
Nato a Firenze e vissuto per lunghi anni all'ombra
della Torre Pendente di Pisa, il suo carattere di antico
toscano doveva estrinsecarsi anche nei suoi lavori -
calibrati e raffinati, poco esuberanti e spesso criptici,
sempre impostati sopra un registro di cauto ed estremo
controllo, eppure consanguinei alle atmosfere rarefatte
che circondano la Piazza dei Miracoli, le sculture di
Giovanni e Nicola Pisano, gi affreschi dell'Orcagna o di
Benozzo Gozzoli
Una delle caratteristiche dell'arte italiana dei
nostri giorni - come di quella di ieri - è di
essere spesso (non sempre) legata a quelle che sono le
grandi tradizioni del nostro passato, anche quando
nessuna effettiva analogia formale o stilistica lo
denuncia. Nel caso di Papasso nulla nelle sue opere porta
l'impronta di memorie figurative di un passato remoto e
neppure di uno più recente.
Sin dai primi lavori più maturi - a partire
dagli anni settanta circa - l'artista ha seguito un
cammino suo proprio che sarebbe troppo semplice definire
come "astratto"; ma che indubbiamente ha scartato ogni
retaggio figurativo del passato, lasciando che fossero la
materia, il colore, e soprattutto il segno, a narrare una
leggenda personalissima e recondita.
Già a partire da una lunga serie di opere
incisorie - nelle quali è un maestro - era
possibile avvertire la quasi impalpabile volontà
dell'artista di tracciare delle immagini il cui
equilibrio fosse basato su impercettibili differenze di
piani, di livelli, di chiaroscuri.
Così nella sua prima raccolta di stampe
"genealogia" (1976), che inizia l'uso dei Papiers
Froissés, così in quella dell'81 (Canta),
così nelle successive "Re-spira", "Forma
Naturae", "Racconto" (dell'82 e 83). Ed è, infatti,
a proposito della pubblicazione di "Canta", che ebbi a
scrivere (e mi scuso per l'autocitazione, che peraltro
può valere da "chiave" anche per le opere
successive): "Un disco bianco, percorso da una sottile
traccia sanguigna: due losanghe irregolari che si
confrontano; un foglio lacerato su cui sono distesi
minuti segni d'un alfabeto asemantico; una figura
ovoidale percorsa da brevi tracce su cui è
sovrapposto un minuto frammento di trina
sono tavole
di calibrata levità, di sofisticata esecuzione,
dove ogni segno si riallaccia al precedente, quasi a
completare un discorso appena iniziato
".
Attraverso la ripetizione - persino coatta - di alcuni
moduli grafici (figure ovoidali, punteggiature,
rettangoli e cerchi frammisti) che ne fanno
immediatamente riconoscere la paternità,
distinguendoli nettamente da qualsiasi altra opera,
Papasso proseguiva così nel suo difficile cammino
solitario.
"Carte stropicciate" (Papiers Froissés): carta
velina utilizzata in molte composizioni, vuoi lasciandola
completamente bianca, vuoi con tenue nuances cromatiche
con le quali viene costruita un'immagine che è al
tempo stesso bi-e tridimensionale. La presenza di carte
sovrapposte, dai lembi increspati, che interrompono la
superficie della carta o della tela, unite alla presenza
di forme disegnate con sottilissimi tracciati pittorici e
grafici, fa si che l'opera in toto venga a presentarsi
come una abbagliante superficie candida, nella quale
assumono un incredibile rilievo le scarne forme
disegnate, estroflesse, o sovrapposte, sicché la
qualità tipica del collage si allea con la
particolare icasticità che di solito è
caratteristica dell'incisione
Non è facile - anzi è persino gratuito -
voler descrivere a parole il "contenuto" di simili opere
sempre al limite dell'astrazione e che solo raramente
denunciano una vaga reminescenza naturalistica (ad
esempio una sorta di paesaggio marino) o un ricordo
formale (certe figure ovoidali).
Ma proprio questa difficoltà ermeneutica che mi
sembra più significativa per la definizione di
quest'opera; come lo è la sua assoluta lontananza
dagli influssi di artisti passati o contemporanei. Forse
soltanto qualche lontano eco di certe opere di Arakawa,
di certe concrezioni materiche d'un Tapies, di certe
estenuate superfici di Fautrier o di Tobey, potrebbe
valere da pietra di paragone; ma di un paragone del tutto
improprio perché ognuno di questi artisti è
privo di quella assoluta "compostezza", di quella
precisione rigorosa ma al tempo stesso leggiadra, che
costituisce una delle costanti dell'opera di Papasso.
Un'opera, insomma, che è indubbiamente
tutt'altro che "facile", proprio perché priva di
effetti marcati, di violenti chiaroscuri, di sciabolate
di colore: lontana, dunque, tanto dal più recente
espressionismo germanico, quanto dalle truculente
figurazioni della transavanguardia, e ancor più
dalla grossolana e massiccia scanditura delle "strutture
primarie" oggi nuovamente rivisitate.
Un'opera, pertanto, che deve essere centellinata con
cura e con amore per poterne avvertire gli occulti e
impalpabili aromi.
Gillo Dorfles