Una costante dialettica di elementi in divenire che si estrinsecano fuori da un magma ancora nebuloso, percorso da fremiti sotterranei da germinazioni embrionarie, e forme squadrate e precise (o che tali appaiono): ovoidi, rettangoli, trapezoidi, costituiti attraverso una peculiare tecnica che già da alcuni anni l'artista ha inventato e fatta sua. Una tecnica che consiste nell'uso di soffici papiers froissés, impastati e posti in rilievo sulla sottostante tela, a creare una sorta di neoformazione materica a sua volta arginata e scissa dal sottostante fondo amorfo della tavola o della tela. Ho preferito indicare subito questa particolare tecnica perché ritengo che, nel caso di Antonio Papasso, da qui bisogna partire per giungere ad un'analisi più serrata della sua ultima opera e della sua poetica attuale. L'opera di Papasso, infatti, è sostanzialmente grafico-epidermica, fatta di minute vibrazioni, di segni incompiuti, che soltanto uno spettatore avventato potrebbe scambiare per l'equivalente o il retaggio dell'informale. Non di informale, invece, si tratta, ma di una formatività che procedendo per accumulo e per integrazioni attraverso la successiva aggiunta di spessori e di trame - giunge a costituire quel nucleo embrionario di cui sopra, che è la vera matrice di ogni nuova operazione. Entro tale matrice - spesso unica, ma alle volte duplice e spezzata - si agitano e si organizzano delle curiose proliferazioni a metà strada tra un mondo quasi vegetale e uno più decisamente organico: formazioni anguiformi alle volte, oppure efflorescenze a mo' di alghe e di licheni; o, ancora, corpuscoli nucleati non saprei bene se più prossimi all'aspetto ingigantito di batteri o cellule o a quello di insetti ancora allo stadio larvale. La mia, probabilmente, è solo una lettura "a la Rorschach" di queste figurazioni che l'artista toscano ha creato con intenti molto diversi e forse del tutto lontani da una pretesa figurativa. Sta di fatto, però, che la sua opera denuncia indubbiamente una componente inconscia, onirica, (persino surreale, come ha sostenuto Roberto Sanesi); una componente, dunque, che domani potrebbe evolvere verso figurazioni più esatte e più antropo o zoo-morfe, o verso immagini decisamente illusorie, verso allucinazioni tratte dall'Io Profondo. Anche l'uso del colore, del resto, conferma la mia opinione, perché permane sempre estremamente cauto e misurato, quasi nascosto e latente, in questa fase del suo operare; del tutto sottomesso alla necessità della forma e della matericità. Un colore insomma, che spesso indica solo la sottolineatura d'un grafismo esasperato. Salvo nei pochi casi in cui l'intera matrice formale si differenzia dallo sfondo del dipinto attraverso una colorazione globale e unitaria, dove, tuttavia, il colore non raggiunge mai la purezza timbrica d'una valenza a se stante, ma è sempre sottomesso alle esigenze del tessuto sottostante. Oggi comunque osservando attentamente le opere degli ultimi due o tre anni, qui esposte, ci colpiscono altri elementi che hanno una loro indiscussa carica vitale. Ho parlato dianzi di forme ovoidali: queste sono state a lungo le vere direttrici della sintassi di Papasso (con un lontano richiamo alle famose "ova" di Fontana, anche se qui, sia la materia, che la motivazione sono sostanzialmente diverse) finché hanno lasciato il posto a forme dalle linee spezzate, mentre negli ultimi tempi le sagome, costituenti il nucleo centrale dei dipinti, si sono arricchite di un'ulteriore dimensione prodotta dall'inserzione di sottili frammenti di ricami o di trine, che probabilmente hanno non solo un valore materico, evidente già al primo sguardo, ma anche un valore di "apertura" verso lo spazio esterno. In altre parole le forme chiuse risultanti, come ho detto, dalle sovrapposizioni e dalle colorazioni del papier froissé che, fino ad ieri si ergevano solitarie in mezzo alla superficie amorfa del quadro (quasi pallide meduse in un mare incolore) vengono a trovare qui una prosecuzione attraverso i frammenti ricamati o in alcuni casi attraverso inserti di cartone o di stoffa. Si tratta di una maniera di uscire dal chiuso impenetrabile del proprio io, di rompere il "guscio dell'ovo" o le pareti entro cui l'embrione galleggia immerso nen suo liquido amniotico? O non piuttosto aprirsi una strada verso l'esterno, verso la luce, verso una nuova e diversa - forse più pericolosa ma anche più fruttuosa - comunicazione col prossimo, con la società, con il mondo. Gillo Dorfles(*) |
(*)Gillo Dorfles (Trieste, 1910), è ben noto per i suoi studi di estetica e costume e come critico d’arte. Ha scritto numerosi libri, oggi considerati classici, che sono stati tradotti in molte lingue straniere. Tra questi ricordiamo: Nuovi riti e nuovi miti (1965), Il Kitsch (1968), L’oscillazione del gusto (1970). |